L'AMORE SBAGLIATO
Pagine tratte dal romanzo-
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Loris si avvicinò alla finestra e l’aprì con impeto… quella musica, sempre la stessa.
Da qualche tempo un pianoforte, ogni pomeriggio all’incirca alla stessa ora, emetteva le sue dolci note; suoni melodiosi e tristi in alcuni momenti, vivaci in altri; chi stava suonando riusciva a mettere in risalto la dinamica del pezzo in modo magistrale, andando da un pianissimo appena percettibile ad un forte maestoso; si udivano scale cromatiche con i suoni che si inseguivano scendendo e salendo lungo la tastiera. A momenti il suono quasi si bloccava su una nota, poi riprendeva vertiginosamente con estrema precisione ritmica.
Loris era dell’idea che soltanto una donna poteva suonare in quel modo, c’era tutta un’anima in quella musica che esprimeva sé stessa mentre suonava; più che le corde tese del pianoforte, la pianista stava toccando le corde della propria anima; stava esprimendo tutti i sentimenti più profondi.
Nella sua mente, Loris vedeva due mani sottili, con dita ben affusolate che si muovevano tra i bianchi tasti d’avorio e quelli neri del pianoforte, a volte accarezzandoli, altre volte obbligando i martelletti a dare colpi decisi sulle corde fasciate in rame, quelle che emettevano i suoni più profondi. La prima volta che Loris sentì quella melodia al pianoforte, accese il suo smartphone e lanciò l’app Shazam, situata nella prima schermata, ben in vista perché la utilizzava molto spesso; cercava una conferma mentre il cuore gli batteva forte. Shazam non lo deluse: Fantasia in Re minore, Wolfgang Amadeus Mozart, questo fu il responso che com-parve sul display.
Non poteva essere vero, era proprio il pezzo per pianoforte che ascoltava quando era bambino, quando sua madre lo eseguiva con lui seduto accanto che, con occhi sgranati, ammirava quelle mani che correvano leggere su quella lunga striscia di tasti.
Loris, rapito da quella melodia, si perse nei suoi pensieri, gli ritornò in mente sua madre, la sua dolcezza.
Ad un tratto, alcuni ricordi dispersi nei meandri della sua mente, sepolti sotto una spessa coltre di tanti altri avvenimenti, si fecero improvvisamente largo e tornarono a galla. Ricordò che sua madre si era fermata all’improvviso e lo aveva osservato con occhi sorridenti; si era accorto che lui guardava stupito le sue mani ed era rapito da quella melodia che aveva già ascoltato tante volte; lei gli spiegò qualcosa di quel pezzo: «Mozart ha scritto questo pezzo improvvisandolo, è un brano particolare, con momenti molto distinti tra loro. All’inizio sembra di ascoltare Bach con i suoi arpeggi, poi arriva subito Mozart con l’adagio e il presto. Bellissima l’idea di quella nota suonata più volte, tristemente, da sola, come una campana che sta richiamando a raccolta, tutto poi sfocia in quel lamento e in quell’allegro che, in realtà, sa di nostalgia…».
In realtà Loris non aveva compreso nulla di tutto quello che gli aveva detto la madre, ma adesso tutto era più chiaro. La madre conosceva a memoria ogni singola nota, ogni singolo passaggio: lo spartito lo teneva aperto perché le piaceva leggere il titolo e il nome dell’autore, ma non guardava nessuna nota, non ne aveva bisogno: gli occhi, quando erano aperti - per il tempo dell’esecuzione in genere erano chiusi - rimanevano fissi sulle prime due righe in alto: Fantasia in Re minore. Wolfgang Amadeus Mozart.
Loris frequentava il Conservatorio, corso di chitarra.
Nei primi tre anni aveva conseguito la licenza di Teoria e Solfeggio musicale, ma per quanto riguardava lo strumento, aveva completato soltanto il corso medio, si trovava un po’ indietro rispetto ai suoi compagni di corso. L’ultimo anno di liceo lo aveva impegnato davvero tanto, del resto desiderava conseguire un voto alto per presentarsi all’università, al corso di Ingegneria dell’informazione con tutte le carte in regola.
Tutto questo impegno lo aveva allontanato dallo studio pratico della chitarra e dalla stessa frequenza del Conservatorio.
Inizialmente gli era pesato molto stare lontano da quell’ambiente ricco di musica. Ricordava molto bene quando, percorrendo i lunghi corridoi del Conservatorio, sentiva i suoni dei vari strumenti con le loro caratteristiche voci: lì sentiva suonare l’oboe con il suo timbro scuro e delicato; poco oltre si udiva il suono del clarinetto, strumento estremamente versatile in grado di far divertire e di intenerire nello stesso tempo. Appena due stanze dopo, dalla porta cercavano di uscire fuori i suoni incantevoli, quasi angelici, delle corde di un’arpa. Si trattava di un’arpa da concerto, con i suoi sette pedali a doppia tacca.
All’inizio degli studi, a Loris sembrava già abbastanza complicata la sua chitarra con solo sei corde, ma quando vide l’arpa da vicino ne rimase sbalordito, di corde ne possedeva ben quarantasette! Gli fu spiegato che ogni corda poteva produrre tre note differenti grazie proprio a quei sette pedali: era il loro corretto utilizzo che permetteva
all'arpa di far produrre ad una stessa corda una delle sue tre note.
A Loris piaceva trovarsi in quell’ambiente, ci stava bene.
La musica ce l’aveva nell’anima; non per nulla, a causa del colore della sua pelle, si definiva un creolo; la sua pelle aveva gli stessi colori degli abitanti dell’America centrale.
I suoi capelli, in stile rasta, lo avvicinavano ancora di più a molti giovani di quell’America. Era fiero della sua capigliatura rasta; non era dovuta solo ad aspetti estetici, ma ad una forte credenza religiosa. Loris si era ben informato, conosceva tutta la storia del rastafarianesimo e vi aveva aderito con grande convincimento.
Ogni tanto si riuniva con alcuni suoi compagni chitarristi e con qualche amico del conservatorio, di corsi strumentali differenti, tutti musicisti in erba come lui: tentavano di suonare qualcosa, soprattutto musica blues.
Amava molto la musica classica ma anche quella leggera e, da buon chitarrista, ascoltava artisti e band musicali in cui la chitarra la faceva da padrona con le sue improvvisazioni; musicisti come Steve Ray Vaughan, conosciuto semplicemente come SRV, Steve Vai che si definiva “il chitarrista di Dio”. Loris rimase stupito nello scoprire che Steve Vai, per interpretare in modo sublime il brano solo strumentale
For the Love of God, aveva sostenuto un digiuno di ben dieci giorni e nel quarto aveva finalmente registrato il brano, zeppo di tecniche chitarristiche come tremolii, armoniche,
sweep-picking, il metodo che utilizzava spesso per riuscire a suonare un elevato numero di note in una brevissima unità di tempo.
Oltre a questi suoi “grandi” preferiti, ascoltava spesso ar-tisti del calibro di Beth Hart e Joe Bonamassa, Eric Clapton, Jimi Hendrix, B.B. King, John Lee Hoker e tanti altri,
alcuni dei quali poco noti ai più perché considerati musicisti di nicchia; insomma aveva una ricca cultura di musica in cui la chitarra risaltava in modo particolare.
Il posto d’onore della stanza, sopra la testata del letto, era stato riservato, ovviamente, ad un mega poster di Bob Marley: come si poteva essere rasta e chitarrista senza la conoscenza anche di Marley?
Certo, la maggior parte di quei musicisti e dei loro pezzi non erano ancora assolutamente alla sua portata; per questo, per ora, lui e i suoi amici si divertivano a suonare pezzi di artisti più abbordabili, come i Pink Floyd o gli stessi Dire Straits che avevano alcune melodie tecnicamente semplici da eseguire.
Fu proprio questa sua conoscenza della musica che lo portò a immaginare, in modo del tutto arbitrario, che le note del pianoforte che entravano nella sua stanza dovessero essere suonate per forza da una donna, da una giovane donna.
E ormai desiderava assolutamente conoscerla!
Si era creato un forte legame tra lui e la sua pianista… più che altro tra lui e la sua immagine della giovane pianista; sempre se di una donna, per di più giovane, effettivamente si trattasse!
In qualche modo se l’era anche raffigurata, si era costruito mentalmente una propria fisionomia della ragazza.
Riteneva che si dovesse trattare di una ragazza all’incirca della sua età, poco più di vent’anni, sicuramente carina, con i capelli lunghi e castani.
Le mani, su queste ci aveva riflettuto abbastanza, dovevano essere senz'altro belle e sottili, con dita lunghe e affusolate, le classiche mani da pianista.
Tuttavia, Loris ricordava di aver letto qualcosa del famoso pianista cinese Lang Lang, il quale affermava che se è vero che le dita lunghe in teoria rendono tutto più facile, dita robuste e corte sono però più vicine ai tasti e permettono di ottenere una gamma più estesa di colori. Certo le une o le altre dita non erano sufficienti per eseguire alcune partiture di Sergej Vasil'evic Rachmaninov, un giovane pianista dotato di dita così particolari che arrivavano facilmente a coprire un’estensione di ben dodici tasti del pianoforte con una sola mano, una sfida per la maggior parte dei pianisti.
Loris mise da parte l’enorme testo che stava studiando, Architetture e reti di calcolatori, poggiò le braccia sulla scrivania e lasciò andare la testa sulle braccia, ascoltava la melodia… i suoi pensieri si persero nel passato; il suo segreto tornò a farsi breccia nel marasma dei pensieri che affollarono la sua mente.
Sua madre, Luisa, era stata una brava pianista, una concertista.
Si era esibita sui palchi dei grandi teatri italiani: la Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, la Fenice di Venezia. Spesso i suoi concerti si concludevano con ovazioni che duravano più di quindici minuti.
Quel 12 luglio di cinque anni fa, Luisa Rinalsi aveva concluso il suo Concerto per pianoforte e orchestra n. 13 in Do maggiore, di Mozart: era stato un grande successo, nonostante la parte principale del concerto fosse affidata all’orchestra, lei era riuscita comunque a far emergere la sua maestria nelle parti di pianoforte solista ...
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